Silenziosa tragedia africane
Di Carlo Di Stanislao
Nel Corno d’Africa una
siccità senza precedenti miete vittime da due anni, regalando una
morte per fame e per sete a migliaia di persone, ogni giorno. Volendo
usare dei parametri di valutazione, non c’è dubbio che oggi questa
sia la crisi umanitaria più grave del pianeta. Lo ha
potuto constatare direttamente l’Alto Commissario Antonio Guterres
in visita nella regione, che ha affermato senza esitazione: “In
questi anni ho visitato molti campi profughi nel mondo ma non ho mai
visto persone arrivarci in tali disperate condizioni. Una
tragedia umana di proporzioni inimmaginabili”. Sono
dieci-dodici milioni gli abitanti che rischiano questa morte
orribile, dovuta ad una siccità legata ai cambiamenti climatici, che
hanno fustigato particolarmente questo Continente. La siccità è
venuta e si è mangiata tutto, il verde, le colture, i corsi d’acqua,
le acacie che intristiscono nella savana coperte di polvere. Ieri il
segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, lanciando un appello per
“undici milioni di uomini che nell’Africa dell’Est non possono
attendere” perché “bisogna porre fine alla sofferenza ora,
subito”, ha ricordato che solo la metà del miliardo e mezzo di
dollari necessari all’operazione di soccorso è disponibile. Ora
tutti parlano della siccità, accusano la Natura. Come Elisabeth Byis
portavoce dell’ufficio di coordinamento affari umanitari dell’Onu:
“Niente di simile si vedeva da 60 anni, la siccità si è saldata a
quella del ciclo precedente da cui queste zone non si erano ancora
sollevate, il bestiame privo di nutrimento ha cominciato a morire e
poi gli uomini, perché i prezzi delle derrate sono esplosi”. “Ecco
gli elementi di quella che potrebbe diventare nei giorni prossimi
«una tragedia di proporzioni ineguagliabili”. Ma la Grande Fame
(un’altra volta come venti anni fa, negli stessi luoghi) non
dipende, dicono in molti, dalla meteorologia ma da un circolo chiuso
disumano. In Somalia, nell’Ogaden etiopico, nel Nord del Kenya la
gente convive con la siccità da sempre, si sposta si ingegna sfrutta
ogni rivolo ogni pozza, resiste. Ciò che li uccide, che li trasforma
in fuggiaschi che dipendono dalla carità sono la guerra e la
politica. Da venti anni, da una carestia all’altra, la Somalia non
ha pace: prima i signori della guerra, poi gli shabab, gli islamici
che vogliono costruire sulla tragedia la loro società perfetta,
divina. La disperazione è ormai al parossismo e non bastano le vuote
promesse e le molte parole dell’Occidente. Nell’Ogaden, madri
accecate dalla fame, hanno gettato i figli nei pozzi asciutti, li
hanno lasciati sul ciglio della pista appoggiati a un arbusto. Senza
voltarsi indietro hanno ripreso a camminare, passo dopo passo, alla
ricerca di un luogo in cui trovare finalmente cibo. Per ora in quei
luoghi disperati, senza una goccia d’acqua da due anni e senza
aiuti da sempre, si mangia di tutto: erba secca, rifiuti, rovi,
radici, animali morti. Ogni giorno nel campo profughi di Dadaad in
Kenya arrivano centinaia di nuovi rifugiati somali in fuga dalla fame
e dalla sete. Ad aiutarli, scrive in un suo resoconto l’Irin, il
servizio informativo dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento
degli aiuti umanitari, sono gli stessi profughi loro connazionali che
da anni hanno trovato riparo in quella che nel tempo è divenuta la
più grande concentrazione di profughi al mondo: oltre 370mila
persone divise in tre campi di Ifo, Hagadera e Dagahaley. “I nuovi
rifugiati – racconta alla Misna Irin Abdiwali Hussein Mohamed,
membro del comitato dei rifugiati – arrivano qui in uno stato
pietoso. In alcuni casi riescono a stento a stare in piedi, i bambini
non hanno la forza di giocare. Alcuni sono vestiti di stracci, senza
scarpe”. Altri arrivano così deboli e malnutriti che nonostante le
cure urgenti e l’alimentazione terapeutica muoiono nel giro di 24
ore. Secondo l'Unicef, mezzo milione di bambini si trova ad
affrontare un imminente pericolo di vita . Occorrebbe comparare ai
nostri “drammi” di Lampedusa, questa davvero tragica situazione,
considerando quanto il Kenya abbia potenzialità di rispondere, per
intuire quali proporzioni di dramma in quel luogo si sta affrontando.
Agli appelli delle organizzazioni umanitarie, il primo ministro degli
Esteri italiano Franco Frattini ha risposto esprimendo “solidarietà”
e “sostegno” al governo di transizione somalo nella battaglia
contro gli al Shabaab. Dichiarazioni che appaiono di cattivo gusto in
un contesto di morte e fame. A dare invece il bell’esempio
sono proprio i Giovani Mujaheddin che hanno riaperto l’accesso alle
organizzazioni umanitarie, mettendo da parte gli interessi della
guerra per il bene della popolazione. E così il Programma alimentare
mondiale (Pam) ha detto ieri di valutare un ritorno nelle zone
controllate dagli al Shabaab. Una “mobilitazione internazionale”
per salvare la Somalia dalla “tremenda carestia” e dalla
“gravissima siccità” che la stanno devastando, uccidendo o
costringendo alla fuga innumerevoli persone è stata la richiesta
espressa ieri mattina da Benedetto XVI dopo la preghiera
dell’Angelus, recitata dal Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo.
In precedenza, il Papa aveva offerto una breve riflessione sul senso
delle parabole evangeliche, che mettono in risalto la bontà di Dio e
l’invito per l’uomo a imitarla, ma non pare che il mondo che si
dice cristiano sia stato e sia in grado di applicarla.
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